E’ soltanto a ventidue anni, dopo la mia guarigione, che ho scoperto quale beatitudine ci sia nell’avere occhi: fin da piccolo ho sempre vissuto attraverso lo sguardo degli altri e del loro giudizio, cercando di adattarmi alle aspettative che mi erano imposte.
Seppure non sia trascorso molto tempo, ho perso svariati pezzi del mio passato. Volevo dimenticare tutto il dolore sentito, provare a convincermi di avere avuto anche io un adolescenza libera e genuina, proprio come quella che vedevo vivere ogni giorno dai miei coetanei attraverso la finestra di uno dei tanti ospedali in cui ho soggiornato. C’è una cosa, tra le tante, che però non dimenticherò mai: quel senso di solitudine che mi ha seguito nel corso degli anni. A scuola ero escluso e deriso, vittima del bullismo dei compagni di classe. Ero grassottello, leggevo tantissimo e amavo scrivere, questo bastava per essere considerato diverso. Soffrivo molto. Provavo a capire, ma non riuscivo a comprendere come qualche chilo di troppo o la passione per Kafka e Dostoevskij potesse fare di me un emarginato.
Iniziai a leggere di nascosto, a non parlare più, soprattutto a non mangiare: volevo soltanto che gli altri provassero un po’ di affetto per me, così come ne provavo per loro. Le cose intorno non mutarono, mentre io non ero più lo stesso. Mi avevano insegnato ad odiarmi, ed io avevo imparato. Ancora oggi provo molta rabbia quando sento qualcuno affermare che l’anoressia è una scelta, che per uscirne basta un po’ di volontà: la società ti spinge ad ammalarti e poi ti condanna. I disturbi alimentari fanno male anche per questo. C’è poca informazione, poco interesse, la gente non sa di cosa si tratta e cade in stereotipi banali.
Per un ragazzo soffrire di anoressia è addirittura peggio, perfino i medici a volte non sanno come trattarti e non tutte le cliniche accettano di prenderti in cura. Ci si ammala per solitudine, per
è un cane che si morde la coda. Quante ore ho trascorso davanti allo
specchio a cercare di strapparmi via la pelle a mani nude, a provare a nasconderla; quante ore ho passato a correre per smaltire del cibo che nemmeno avevo ingurgitato; quante menzogne alla famiglia e agli amici, quei pochi rimasti, soltanto per poter saltare il pranzo. L’anoressia fagocita l’intera giornata, la monopolizza, è un pensiero costante che non ti lascia un secondo di pace. Ed è orribile, quanto frustrante, accorgersi di non essere più padroni di se stessi e delle proprie azioni, veder scivolare la vita verso una direzione che ti sembra di non poter cambiare. Si arriva a un punto in cui la stanchezza supera qualsiasi altro sentimento ed emozione: ti senti esausto, demoralizzato, senza più prospettive di futuro. E’ in quel momento che si aprono due prospettive opposte, quali uscirne o abbandonarti totalmente alla malattia.
Io non saprei dire in che modo ne sono uscito,a volte mi sento quasi miracolato. Delle persone che ho conosciuto nei miei vari percorsi ospedalieri, praticamente tutte donne, sono l’unico ad aver trovato la strada della guarigione: questo da un lato mi rende fiero, ma dall’altro mi spaventa e in qualche strano modo ferisce. Spesso mi immagino come sarebbe la vita delle mie compagne se solo anche loro trovassero di nuovo la tranquillità perduta, quella che basta a volersi bene.
Ci sarebbe moltissimo da dire o raccontare, del resto anni di conflitti non si possono riassumere in poche parole. Quel che so è che sono grato alla vita di tutto ciò che mi ha dato, dalle gioie ai dolori. Ho imparato molto da questa esperienza e ho avuto la fortuna di conoscere persone meravigliose, tanto da convincermi che certi mali colpiscono soltanto laddove c’è una certa sensibilità di fondo.
Da quando ho imparato ad avere occhi molte cose sono cambiate: è un po’ come allargare la visuale, usare più colori, riconoscere tutti i sentimenti allegri e disperati. Alla fine, inaspettatamente, ho scoperto che la vita ha un sapore delicato.