Chiedermi cosa provassero i miei genitori, durante la mi malattia, mi ha sempre provocato un gran dolore. A tutto ciò che già stavo provando di negativo si aggiungeva l’immenso senso di colpa verso di loro, che mi vedevano distruggermi pian piano. Io non potevo fare altrimenti. Non vedevo altre vie possibili se non quella dettata dall’anoressia e pensare a loro, al loro senso di impotenza, mi faceva provare un misto tra onnipotenza e senso di colpa. Dal senso di colpa si rigeneravano miliardi di motivi per cui dare potere alla malattia, per cui punirmi e poi, di nuovo, sentirmi potente, controllante, forte ma anche estremamente cattiva. La cattiveria, però, non mi è mai appartenuta e questo dava foga a quella estenuante guerra, che c’era dentro di me.
Quando mia madre iniziò a preoccuparsi per la mia salute, io non avevo ancora minimamente immaginato la possibilità di avvicinarmi a un disturbo alimentare. Lei però si, lo aveva già capito. Ricordo bene gli sguardi di paura, disperazione e perdizione, che scorgevo dietro i volti dei miei genitori. Ricordo che una sera d’inverno mio padre urlò stremato: “Quando i problemi non ci sono ci se li deve andare a cercare!”. Non dimenticherò mai quella frase anche se, con gli anni poi, mio padre ha cambiato approccio ed ha sfruttato l’occasione per imparare a gestire meglio le sue emozioni, capire di più, allargare la prospettiva, avvicinarsi più dolcemente a me e alla vita in generale.
All’inizio del mio, del nostro percorso, non fu facile trovare un punto d’appiglio. Mia madre rivoltò il mondo per cercare aiuto. Non è stato facile ammettere di avere un problema, non lo è stato sopportare i giudizi della gente, non lo è stato approdare in un mondo sconosciuto ed imparare a conoscere una persona nuova: una figlia nuova. Non è stato facile.
mancanza di comunicazione, poi la patologia ti rende ancora più solo: Credo fermamente che i miei genitori sono stati ammirevoli durante i miei lunghi anni di cura. Il loro essere ammirabili è nato quando hanno accettato la sconfitta, l’eventualità di aver detto o fatto qualcosa di storto, l’imprevedibilità della vita, l’alterità della figlia che loro stessi hanno generato, l’occorrenza di prendersi più cura dello stato e del comportamento emotivo della famiglia intera.
Sono passati nove anni da quando arrivammo al Centro Arianna e, adesso, posso dire con fiera certezza che il mio percorso non è stato solo il mio ma anche il loro.
Lo posso dire senza gelosia e penso che sia stato lì uno dei punti di svolta più importanti: sentire che per loro non ero sbagliata, che comprendevano di passo in passo, sempre di più, la necessità di curarsi, nel senso di dedicarsi cure e carezze, che non facevano muro alla malattia ma volevano comprenderla.
Il dolore di veder soffrire la propria figlia, di non saperla o poterla aiutare, di non sapere cosa e come fare. La paura di perdere quella figlia, di vedere in faccia la malattia, che mostra crudelmente qualcosa che è andato storto, e la paura di mettersi in gioco come persone, prima che come genitori.
Prendere atto del problema e avere la forza di scavare a fondo per trovare la fonte del problema.
Mettersi in gioco fin dove si sente che si può.
Metterci fiducia, speranza, impegno.
Metterci amore.